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Discriminazione, violenza di genere e immigrazione: la risposta più “semplice” a volte è sbagliata

Perché la discriminazione di genere oggi apre al grande tema della violenza sulle donne? E perché spesso confondiamo la violenza perpetrata con una supposta supremazia culturale del genere maschile su quello femminile? Stiamo “semplicemente” parlando di prevaricazione del più forte sul più debole in un ritorno a uno stato di natura pre contratto sociale?

Sicuramente la discriminazione di genere, l’arrogarsi il diritto a giudicare individui in base all’appartenenza sessuale (maschi o femmine) costituisce terreno fertile per la violenza sulle donne.

Quel che è rischioso è la dinamica per cui la società incolpa le donne per atti violenti nei loro confronti e le donne incolpano se stesse, si sentono sbagliate, rotte, in difetto. Questa dinamica silente di senso di colpa nel dimostrarsi debole, sottomessa o, a volte, semplicemente “bella”, fa comprendere perché a volte sia così difficile per le donne denunciare se subiscono violenza. In primis per paura di ritorsioni da parte dei loro compagni/mariti e in secondo luogo proprio per questo senso di colpa, per la convinzione radicata che, forse, in fondo in fondo, sia anche un po’ colpa loro. Come uscire da questa impasse? Solo una diminuzione delle discriminazioni a loro scapito potrà portare, con molta meno probabilità a giustificare atti di violenza contro di esse.

Nel corso degli anni, molteplici sono state le normative istituite a vantaggio e protezione di questa fascia della popolazione, tra cui la Convenzione di Istanbul, la quale, in particolare in due articoli, sottolinea da un lato “il diritto a vivere liberi dalla violenza” principio sacrosanto, valido e applicabile ad ogni individuo.

Dall’altra si è evidenziata la necessità di prevenire tali atti di violenza agendo anche attraverso attività e iniziative volte a sensibilizzare la cittadinanza tutta su questi temi, favorendo così una maggiore riflessione e dialogo anche tra fasce diverse di individui, evitando che passi tutto sotto silenzio. Più persone ne parlano, si confrontano sul tema, più questo rimane di attualità, quindi potrebbe essere più agevole per le donne dirette interessate che si ritrovano in relazioni disfunzionali, riconoscere preventivamente i segnali ed evitare così conseguenze estreme, come danni fisici/psichici o la morte.

In particolare, però, il tema della violenza sulle donne spesso ha qualcosa a che vedere con l’integrazione delle persone immigrate. E’ innegabile che una percentuale altissima rispetto alla popolazione presente di atti violenti verso le donne sono perpetrati da immigrati. Viene da chiedersi perché. E la risposta più semplice, è probabilmente quella sbagliata.

Se ne fa un fatto culturale, di mancato rispetto della donna come retaggio di una cultura del proprio paese di provenienza quando, invece, l’attenzione andrebbe posta sulla mancata integrazione, culturale e normativa. Il problema non è, infatti, la cultura o le eventuali disuguaglianze, ma quanto scarsamente gli immigrati sono in grado di integrarsi nel paese in cui si trovano. Tale mancanza si ripercuote sul sistema di regole vigente e su come può essere combinato con quello dei migranti.

Un problema di violenza e discriminazione richiama quindi una tematica di difficoltà di integrazione. E la mancata integrazione provoca una mancata comprensione di codici di comportamento, una frustrazione che spesso sfocia in atti violenti e una ghettizzazione che priva gli individui di relazioni. Tre condizioni che sono terreno fertile per gesti violenti e al di fuori di qualsiasi codice normativo moderno. Porsi al di fuori di una cultura codificata da un sistema di norme sociali e culturali, genera drammi personali che diventano collettivi nel momento della Violenza. E come ogni comunità basata sul sacrificio si preferisce immolare sull’altare della colpa la donna debole o l’immigrato cattivo piuttosto che la comunità stessa incapace di difendere o integrare chi ne ha più bisogno.


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